Dal 6 aprile al 16 luglio 2006 la GAMeC di Bergamo organizza una mostra monografica dedicata a Giulio Paolini dal titolo Fuori programma a cura Giacinto Di Pietrantonio e Giulio Paolini.

Il percorso espositivo si articola lungo quattro sale della GAMeC, il salone d’onore dell’Accademia Carrara e un’aula dell’Accademia Carrara di Belle Arti.
Paolini ha concepito la mostra come progetto site specific, dove lavori storici e recenti creano un’unica grande opera totalmente nuova, poiché un’esposizione, per l’artista “…è la messa in scena di quelle opere che in quella data occasione concorrono a costituire una sorta di testo, di racconto per immagini”. Questo racconto parte dalla considerazione dell’Accademia intesa quale “scuola”, quindi luogo della trasmissione della conoscenza e depositaria dell’arte e, soprattutto, di apprendimento delle tecniche tradizionali di pittura, scultura e disegno. Paolini ha costruito su questo concetto tutta la sua arte, e sono queste idee che ha voluto ribadire e precisare nella mostra sia attraverso il coinvolgimento della Pinacoteca e dell’Accademia sia intitolando le sale della GAMeC Aula di Pittura, Aula di Scultura, Aula di Disegno – rispettivamente dedicate alle tre materie accademiche – e l’ultima, Quadri d’autore, dedicata all’artista, o meglio alla tematizzazione della sua biografia.
Il titolo della personale, suggerito dallo stesso Paolini, allude al contesto dell’Accademia, evidenziando l’inutilità di imparare pedissequamente e la necessità di trovare un “fuori programma”, una variazione sul tema partendo dalle regole di base, concetto applicabile nella scuola così come nel mondo dell’arte.
Il concetto di triade, uno dei fondamenti delle opere di Paolini si esprime in Fuori programma nella valutazione delle sedi, tre, nelle sale dedicate a tre materie, e nell’opera scelta per il Salone d’onore dell’Accademia Carrara, Tre per tre.

L’Aula di Pittura, prima tappa del percorso espositivo alla GAMeC, è composta dal disegno geometrico di una quadreria dove sono collocate le opere di Paolini; sulla parete opposta è stilizzata un’aula dove pende al centro la riproduzione, su un foglio trasparente, del particolare dell’opera La Sainte Vierge II (1920) di Francis Picabia, che si colloca visivamente sul cavalletto disegnato sul muro e diviene fulcro visivo di tutte le opere esposte. In Picabia, Paolini vede una sorta di suo alter ego di fronte al quale porre le sue opere vecchie e nuove in modo che il riassunto, l’elenco, la tassonomia delle immagini guardino alla macchia di Picabia come al grado zero dell’arte pittorica.

Anche nell’Aula di Scultura vengono riallestite opere preesistenti – come ad esempio Mimesi del 1975 – che ruotano intorno ad un lavoro composto anche da cubi in plexiglas che ricordano di nuovo banchi e tavoli. Paolini esprime qui la sua idea di scultura: da opera cui girare intorno ad installazione; essere in questa sala è trovarsi, in realtà, al centro del quadro, o dell’opera in cui ci si aggira, perché la scultura non è solo forma ma diviene anche spazio e tempo, quindi luogo da percorrere. Sul cubo è posato un registro di scuola (con la data dell’inaugurazione e il titolo della mostra), filo conduttore delle sale, e all’interno sono poste fotocopie di fotografie di opere di Brancusi, scattate da Brancusi stesso, che rappresentano, quindi, l’immagine che l’artista ha voluto dare di sé e della sua arte.

Paolini dedica la terza sala, l’Aula di Disegno, a questa tecnica, già in passato una delle prime procedure di apprendimento dell’arte dei grandi Maestri attraverso la copia. Per Paolini l’atto di ricopiare ha una sua qualità poiché la riproduzione possiede sempre una propria differenza rispetto all’originale. Anche in questa sezione, in cui trovano spazio vetrine contenenti sue pubblicazioni, è tracciata a matita su di una parete una quadreria, mentre sull’altra un disegno in prospettiva di tavoli e mobili sintetizza un’aula; su quest’ultima è appesa la riproduzione del particolare di un disegno di Sol Lewitt, proveniente da una cartolina che egli inviò all’amico Paolini. Tutta l’opera di Paolini, come lui stesso afferma, si sviluppa e rimanda all’opera Disegno geometrico del 1960, che è la squadratura del foglio e quindi un atto progettuale, un gesto di inquadramento, una preparazione di campo per poi poter accogliere tutte le altre immagini, quindi anche questo disegno non più “concettuale” ma espressivo e personale di Lewitt.

Nell’ultima sala, Quadri d’autore, due cubi in plexiglas sovrapposti accolgono al loro interno un atelier d’artista miniaturizzato e il cofanetto Einaudi Racconti di Artisti di Henry James, mentre il libro è aperto sulla sommità del cubo. È un’opera che riassume il mondo dell’arte e degli artisti, fatto di strumenti, storie e memorie che un tale mondo può evocare. Il fatto di mettere in una sala e di far diventare le storie degli artisti il punto centrale di essa, vuol dire ancora una volta riconfermare l’importanza della storia seppur frammentata e biografica, perché Paolini crede che “… Nel linguaggio dell’arte ciò che conta è un’indicazione, una segnalazione … Penso che il museo dovrebbe farsi garante di questo dono prezioso che è la parola mediata del linguaggio dell’arte”.

La riflessione di Paolini sull’apprendimento degli strumenti dell’arte, del loro coinvolgimento nell’atto della produzione e riproduzione e dell’interdipendenza tra coloro che sono coinvolti nell’atto creativo si completano nelle due sezioni distaccate. Così una delle aule didattiche dell’Accademia Carrara di Belle Arti ospita un allestimento che prevede a parete una serie di immagini di opere di Paolini riassemblate in caduta libera fino al pavimento, e al centro Les Instrument de la Passion, una tela bianca a soffitto sospesa su un tavolo trasparente su cui sono sparsi frammenti di immagini di corpi celesti, fermate da una sfera di cristallo che rifrange sulla tela la luce di una lampada che illumina il tavolo da sotto.

La mostra è realizzata in collaborazione con l’Accademia Carrara e l’Accademia Carrara di Belle Arti.